Più di 6000 accessi ad Internet per scopi personali durante l’orario di lavoro: il licenziamento è legittimo. Così ha stabilito il Giudice della sezione lavoro del Tribunale di Brescia (sentenza n. 782 del 13 giugno 2016), fornendo un primo riferimento all’art. 4 della L. 300/1970, così come modificato dal d.lgs. 151 del 14 settembre 2015 (il c.d. Jobs Act).
La vicenda traeva origine dalla contestazione presentata dalla ricorrente, la quale deduceva di aver lavorato alle dipendenze del resistente con contratto a tempo indeterminato con mansione di segretaria e di essere stata licenziata, tra gli altri motivi, anche per un utilizzo del computer aziendale a fini privati: tale giustificazione, sempre secondo la lavoratrice, risultava meramente ritorsiva e dunque determinava l’illegittimità del licenziamento per mancanza di giusta causa.
Le evidenze probatorie emerse in giudizio avevano posto in luce come la condotta oggetto di contestazione fosse stata effettivamente tenuta dal lavoratore, che aveva appunto effettuato più di 6.000 accessi ad internet in 18 mesi, dei quali circa 4.500 al social network Facebook, nonché a giochi e musica, attività tutte assolutamente estranee all’esecuzione del rapporto di lavoro. La condotta integrava dunque una manifesta violazione degli obblighi di diligenza e buona fede incombenti sul prestatore.
La difesa della ricorrente sottolineava come, in realtà, l’acquisizione dei rilievi probatori avesse violato la propria privacy e che, ad ogni modo, le era sempre stato consentito utilizzare la rete internet durante l’orario di lavoro, anche per scopi personali.
Il Giudice di merito, argomentando in base alle prove offerte dalle parti nel corso del procedimento, ha evidenziato come il datore di lavoro si sia limitato a verificare esclusivamente la cronologia e la tipologia di accesso ad Internet direttamente dal computer in dotazione alla dipendente; metodo questo che non presuppone alcun genere di installazione di dispositivi di controllo in violazione della privacy, “trattandosi di dati che vengono registrati da qualsiasi computer e che sono stati stampati al solo fine di verificare l’utilizzo di uno strumento messo a disposizione dal datore di lavoro per l’esecuzione della prestazione”. Non poteva, sempre secondo il giudicante, neppure ipotizzarsi l’inosservanza degli adempimenti previsti dall’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, in quanto il monitoraggio delle attività di lavoro non ineriva alla produttività ed all’efficienza della prestazione, bensì a comportamenti estranei alla stessa.
La ricorrente inoltre non aveva neppure contestato la navigazione Internet, limitandosi ad evidenziare come l’accesso alla rete fosse consentito sia durante l’orario di lavoro che nelle pause: conseguentemente le attività poste in essere dovevano considerarsi pacifiche. Il comportamento, lesivo ed “idoneo ad incrinare il rapporto di fiducia del datore di lavoro”, giustificava quindi il licenziamento.
La pronuncia in commento costituisce un primo riferimento al novellato art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, così come modificato dal d.lgs. 151 del 14 settembre 2015 (c.d. Jobs Act): in realtà, nel caso di specie, il Giudice ha escluso la rintracciabilità di quei controlli a distanza alla cui adozione la norma subordina adempimenti specifici ed indefettibili da parte del datore. La pronuncia, infatti, ha sottolineato come la mera stampa (effettuata dal datore di lavoro a fini probatori) della cronologia dei siti web visitati dall’utente-lavoratore, non cosituisca affatto attività di monitoraggio a distanza del prestatore, non estrinsecandosi nell’installazione di strumenti a ciò deputati. La sentenza del Tribunale di Brescia affronta così solo apparentemente l’annoso tema dei controlli a distanza, argomento reso ancor più complesso e delicato dalla riforma del 2015 e che, dunque, ancora non trova una compiuta interpretazione da parte della giurisprudenza.